“Appartengo ad un piccolo paese. Un promontorio roccioso nel Mediterraneo, niente lo contraddistingue se non gli sforzi della sua gente, il mare e la luce del sole. E’ un piccolo paese, ma la sua tradizione è immensa ed è stata tramandata nel corso dei secoli senza interruzione. La lingua greca non ha mai cessato di essere parlata. E’ passata attraverso tutti quei cambiamenti attraverso cui passano le cose viventi, ma non c’è mai stata una frattura. Questa tradizione è caratterizzata dall’amore per l’umano”
Giorgos Seferis fu il primo Nobel per la letteratura greco.

 

Discorso di Seferis all’assegnazione del premio Nobel nel 1963.

Un poeta, che mi è particolarmente caro, l’irlandese W. B. Yeats, Premio Nobel del 1923, al suo ritorno da Stoccolma ha scritto un resoconto dal titolo “La gene-rosità della Svezia”. Mi sono ricordato di ciò quando l’Accademia Svedese mi onorò altrettanto con la sua scelta. “La generosità della Svezia” è per noi molto più vecchio e si estende molto oltre. Non credo che i Greci, venendo a conoscenza dell’omaggio che avete fatto al mio paese, possano dimenticare il bene che la Svezia ha fatto al nostro paese, con altruismo, pazienza, e la perfetta umanità, sia che sia stato fatto dai vostri archeologi in tempi di pace o dalle missioni della vostra Croce Rossa durante la guerra. E non mi soffermo su molti altri gesti di solidarietà che abbiamo visto più di recente.Quando il vostro Re, Sua Maestà Gustavo Adolfo VI, mi consegnò il diploma del Premio Nobel, non ho potuto non ricordare con commozione i giorni in cui il Principe ereditario era determinato a dare il suo personale contributo agli scavi dell’Acropoli di Asine. Quando ho incontrato per la prima volta Axel Persson, quell’uomo generoso che aveva dedicato la sua vita a quello scavo, l’ho definito il mio padrino – padrino perché Asine mi aveva dato una poesia.Nella città di Missolonghi un monumento di granito è stato dedicato agli Sve-desi che morirono per la Grecia della sua lotta per l’indipendenza. La nostra gra-titudine è ancora più duratura di quel granito.Una sera all’inizio del secolo scorso, in una strada sull’isola di Zante, Dioni-sios Solomos sentì un vecchio mendicante sulla porta di una taverna che recitava una popolare ballata sull’incendio del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Tendendo la sua mano, il mendicante disse:Il Santo Sepolcro di Cristo, non bruciava;dove splende la luce santa, nessun altro fuoco può bruciare.Si disse che Solomos fosse preso da tale entusiasmo che entrò nella taverna e offrì da bere a tutti i presenti. Questo aneddoto è significativo per me; l’ho sempre considerato come un simbolo del dono della poesia che la nostra gente ha lasciato nelle mani di un principe dello spirito proprio in un momento in cui inizia la risur-rezione della Grecia moderna.Questo simbolo rappresenta un lungo sviluppo che non è stato ancora comple-tato. È mia intenzione parlare di alcuni uomini che sono stati importanti per la lotta per un modo di esprimerci come greci da quando abbiamo iniziato a respi-rare l’aria della libertà. Mi scuso se il mio resoconto è discutibile, ma non voglio approfittare della vostra pazienza.Le nostre difficoltà sono cominciate con gli Alessandrini che, abbagliati dalla
2classicità dell’Attica, cominciarono a insegnare che cosa è corretto e che cosa è scorretto nello scrivere, cominciarono, in altre parole, a insegnare purismo. Essi non considerarono che la lingua è un organismo vivente e che niente può fermare la sua evoluzione. Essi ebbero infatti molto successo e portarono avanti genera-zioni di puristi, che sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Essi rappresentano una delle due grandi correnti nella nostra lingua e nella nostra tradizione che non sono mai state interrotte.L’altra corrente, a lungo trascurata, è il volgare, il popolare, o la tradizione orale. E’ vecchia come la prima ed ha i suoi propri documenti scritti. Mi sono commosso quando un giorno mi è capitato di leggere una lettera di un marinaio a suo padre, conservata in un papiro del secondo secolo. Mi ha colpito l’attualità e la presenza del suo linguaggio, e mi sono rammaricato che per molti secoli una tale ricchezza di sentimenti fosse rimasta inespressa, soffocata permanentemente da un’ampia copertura di purismo e dalle sottigliezze dello stile retorico. I Vangeli, anche, come sapete, sono stati scritti nel linguaggio popolare del periodo. Se si pensa agli Apostoli, che volevano essere capiti e apprezzati dalla gente comune, si può solo considerare con angoscia la perversità umana che causò tumulti ad Atene all’inizio del secolo in occasione di una traduzione dei Vangeli, e che ancora oggi marchia come illegittima la traduzione delle parole di Cristo.Ma sto anticipando. Le due correnti corsero parallele fino alla caduta dell’Im-pero Greco-Bizantino. Da un lato, vi erano studiosi, affinati da migliaia di abbel-limenti della mente. D’altro canto, vi era la gente comune, che li considerava con rispetto ma che comunque continuava nel suo modo di esprimersi. Non credo che durante l’epoca bizantina ci sia mai stato un riavvicinamento tra le due correnti, cioè un fenomeno come si osserva negli affreschi e mosaici degli anni che prece-dettero la fine dell’impero sotto i Paleologues. In quel periodo l’arte imperiale e l’arte popolare delle province si fusero per generare uno splendido rinnovamento.Tuttavia Costantinopoli subì una lunga agonia prima di cadere. Quando infine venne conquistata, una schiavitù destinata a durare molti secoli, discese su tutta la nazione. Molti furono gli studiosi che, «portando con sé le pesanti urne riem-pite con la cenere dei loro antenati», come dice il poeta, vennero in Occidente per diffondere i semi di quello che verrà poi chiamato il Rinascimento. Ma quel Rinascimento – mi riferisco alla parola in senso stretto, come si usa per indicare la transizione dal medioevo all’età moderna, indipendentemente se sia stato un bene o un male – quel Rinascimento non era conosciuto in Grecia, con l’eccezione di alcune isole, in particolare Creta, che allora era sotto il dominio veneziano. Là, verso il sedicesimo secolo, venne sviluppata una poesia e un teatro in versi in un linguaggio splendidamente vivo e perfettamente sicuro di se stesso. Conside-rando che allo stesso tempo importanti scuole di pittura stavano fiorendo a Creta e che verso la metà del secolo, il grande pittore Cretese Domenicos Theotocopou-los, che divenne meglio conosciuto come El Greco, nacque e crebbe sull’isola, la caduta di Creta fu un evento ancora più doloroso della caduta di Costantinopoli.
3Costantinopoli, dopo tutto, ricevette un colpo fatale da parte dei crociati nel 1204. Essa stava semplicemente sopravvivendo a se stessa. Creta, d’altro canto, era in pieno vigore, e si può solo covare una curiosa miscela di dolore e fede per il destino di quella terra greca la cui gente è sempre pronta a ricostruire ciò che le tempeste della storia sono sempre pronte a distruggere. Si deve ricordare che cosa il poeta Kalvos scrisse al generale Lafayette: «Dio e la nostra disperazione».In ogni caso, la rinascita a Creta ha iniziato a diminuire nella metà del dicia-settesimo secolo. In quel tempo molti Cretesi si rifugiarono nelle Isole Ionie e in altre parti della Grecia. Essi portarono con loro le loro poesie, che sapevano a memoria e che furono immediatamente adottate nei loro nuovi ambienti. Queste poesie a volte si mescolarono con canzoni popolari conservate dai greci del con-tinente, insieme con le loro leggende, per molte generazioni. Vi sono segnali che fanno pensare che alcune di esse risalgano a tempi di paganesimo; altre sono emerse nel corso dei secoli, come il ciclo del poema di Digenis Akritas, un pro-dotto di epoca bizantina. Esse mostrano come nel corso dei secoli gli stessi atteg-giamenti di fronte al lavoro, al dolore, alla gioia, all’amore e alla morte siano stati ripetuti incessantemente. Ma, allo stesso tempo, la loro espressione è così fresca, così libera e piena di umanità, che ci fanno sentire intuitivamente in che misura lo spirito della Grecia è rimasto sempre fedele a se stesso. Ho evitato fino ad ora di fare degli esempi. Per quanto io sia in debito con i miei traduttori – è attraverso di loro che sono in grado di conoscere me – ho la dolorosa sensazione di una distor-sione quando riesco a tradurre la mia lingua in una lingua che non è mia. Mi scuso se per il momento non posso impedirmi di fare un’eccezione. E’ una breve poesia per la morte di una persona cara:Per proteggerti posi tre guardie:il sole sul la montagna, l’aquila in pianura,e il fresco vento del nord sulle navi.Il sole è tramontato; l’aquila si è addormentata;e le navi hanno portato via il fresco vento del nord. Caronte ha colto la sua occasione e ti ha portato via.Vi ho dato un pallido riflesso della poesia, che in Greco è luminosa.Essa è il patrimonio che il vecchio mendicante davanti all’osteria a Zante ha lasciato a Dionisios Solomos una sera. L’immagine mi viene in mente quando penso a lui e a ciò che egli ci ha dato.Nella storia della poesia Greca moderna non mancano strane figure e strani casi. Sarebbe stato molto più naturale, per esempio, se la poesia di un paese di marinai, contadini e soldati, avesse avuto inizio con ruvide e semplici canzoni. Ma successe esattamente il contrario. Si è cominciato con un uomo animato dal demone dell’assoluto, che è nato sull’isola di Zante. Il livello di cultura sulle Isole Ionie era in quel momento molto superiore a quella del continente. Solomos aveva studiato in Italia. Egli è stato un grande europeo e ben consapevole dei
4problemi incontrati dalla poesia del suo secolo. Avrebbe potuto fare carriera in Italia. Egli scrisse anche poesie in italiano, e non gli è mancato incoraggiamento; ma preferì la porta stretta e decise di fare il suo lavoro in Greco. Solomos certa-mente conosceva le poesie che i i rifugiati Cretesi avevano portato con loro. Egli era un fervente partigiano del linguaggio popolare, e nemico del purismo. Le sue opinioni in materia sono state conservate nel suo Dialogo tra il poeta e il pedante studioso (dobbiamo intendere questa parola nel senso in cui Rabelais utilizza la parola Sorbonicole). Cito a caso: «Ci sono altre cose nella mia mente» esclama, «che la libertà e linguaggio?» o ancora: «Sottomettiti al linguaggio del popolo, e se sei abbastanza forte, lo conquisterai.» Egli ottenne questa conquista e attra-verso questo impegno diventò un grande greco. Solomos è senza dubbio l’autore dell’Inno alla libertà, la cui prima strofa è diventata il nostro inno nazionale, e di altre poesie che sono state messe in musica e cantate nel corso del secolo scorso. Ma non è questo il motivo per cui il suo patrimonio è prezioso anche per noi; è perché ha saputo tracciare nel modo definitivo in cui i suoi tempi lo permette-vano, il corso che doveva prendere l’espressione greca. Egli amava il linguaggio vivente e lavorò tutta la vita per alzare il livello della poesia che era il suo sogno. È stato uno sforzo che andava oltre le competenze di un singolo individuo. Della sua grande poesia – per esempio “Gli assediati liberi” ispirata all’assedio e alle sofferenze della città di Missolonghi – non ci restano che i frammenti, la polvere di diamante che un artigiano tagliatore si porta nella tomba. Non abbiamo nulla se non frammenti e spazi bianchi per rappresentare la lotta di questa grande anima che era tesa come la corda di un arco che sta per scattare. Molte generazioni di scrittori greci si sono piegati su quei frammenti e spazi vuoti. Solomos morì pro-prio nel 1857. Nel 1927, I Gynaika tis Zakynthos [La Donna di Zante] è stato pubblicato per la prima volta, e lui venne considerato un grande prosatore come già da lungo tempo è stato riconosciuto grande poeta. E’ un magnifico lavoro che provoca un profondo impatto sulla nostra mente. In modo significativo il destino ha voluto che settant’anni dopo la sua morte Solomos rispondesse con questo messaggio alle inquietudini delle nuove generazioni. Egli è sempre stato un inizio.Andreas Kalvos, contemporaneo di Solomos, fu una delle figure più isolate nella letteratura greca. Non c’è neanche un ritratto di lui. Amico del poeta italiano Ugo Foscolo, egli è stato presto invischiato in una lite con lui. Nacque nell’isola di Zante e visse per molti anni a Corfù. Sembra che non abbia avuto alcun contatto con Solomos. Tutto il suo lavoro consiste in una sottile volume di venti odi pub-blicate quando egli aveva appena trent’anni. Nella sua giovinezza viaggiò molto in Italia, Svizzera e Inghilterra. Aveva una grande mente, permeata di concetti morali della fine del diciottesimo secolo, dedicati alla virtù, ferocemente contrari alla tirannia. La sua poesia si ispira alla grandezza e al dolore di una nazione mar-tire. È commovente vedere come quest’uomo, che ha perso la madre da bambino, nel profondo della sua coscienza identifichi l’amore per la perduta madre con quello per il suo paese. Il suo linguaggio è irregolare; le sue rime stravaganti; egli
5aveva un ideale classico in mente e disprezzava ciò che chiamava «la monotonia delle poesie cretesi» che avevano dato così tanto a Solomos. Ma le sue immagini sono lampi di luce e hanno un potere così immediato che sembrano lacerare i suoi versi. Dopo una vita solitaria a Corfù, dedicata all’insegnamento, lasciò le isole dello Ionio. Egli si sposò una seconda volta a Londra e con la moglie aprì un con-vitto per le ragazze in una piccola cittadina di provincia in Inghilterra. Vi visse per quattordici anni, fino alla sua morte, senza riprendere mai più un contatto con la Grecia.Ho fatto un pellegrinaggio in quelle regioni infestate dalle ombre di Tennyson. Un vecchio uomo che ha amato quella parte del paese mi ha raccontato che una volta aveva intervistato donne anziane di ottanta anni che erano state allieve di Kalvos e i cui ricordi erano pieni di rispetto per il vecchio maestro. Ma ancora una volta non sono riuscito a liberarmi dall’immagine di questo uomo senza volto, vestito di nero, che suona la sua lira su un isolato promontorio. La sua opera cadde nell’oblio; senza dubbio la sua voce non era conforme al gusto di retorica irreale e romantica che attraversava Atene in quel periodo. Egli è stato riscoperto a par-tire dal 1890 da Kostis Palamas. La Grecia nel frattempo era maturata, e questo è stato il momento in cui hanno iniziato a sgorgare le forze giovanili della Grecia moderna. La lotta per una lingua viva si stava estendendo. Ci sono state esagera-zioni, ma questo è naturale. La lotta, continuata per molti anni, è andata al di là della letteratura ed è stata caratterizzata dalla volontà di coinvolgere ogni aspetto del presente. Si è rivolta con entusiasmo verso l’istruzione pubblica. Respinge tutt’affatto le forme e le idee. Sicuramente ha voluto preservare il patrimonio degli antichi, ma allo stesso tempo ha manifestato interesse per la gente comune; voleva illuminare l’una con l’altra. Essa si domanda che cosa siamo, noi, ora. Studiosi e dirigenti scolastici hanno preso parte a questa lotta. Importanti studi sul folklore Greco apparvero durante questo periodo, e ci fu una crescente consa-pevolezza della continuità della nostra tradizione, nonché della necessità di uno spirito critico.Kostis Palamas svolse un ruolo importante in questo movimento. Ero adole-scente quando lo vidi per la prima volta; stava per tenere una lezione. Egli era un uomo di bassa statura, che impressionava per la profondità dei suoi occhi e per la sua voce, che era ricca e un po’ tremula. Il suo lavoro di ampie dimensioni influenzò decenni di vita letteraria greca. Si è espresso in tutti i generi di poesia – lirica, epica, e satirica; al tempo stesso, fu il nostro più importante critico. Aveva una sorprendente conoscenza delle letterature straniere, dimostrando ancora una volta che la Grecia è un crocevia, e che, a partire dal tempo di Erodoto o Pla-tone non è mai stato chiuso alle correnti straniere, specialmente nei suoi momenti migliori. Palamas inevitabilmente avuto nemici, spesso tra coloro che avevano beneficiato della strada aveva aperto. Lo considero una forza della natura davanti al quale la critica apparve meschina. Quando apparve, fu come se una forza della natura, fatto un passo indietro e accumulato purismo per oltre mille anni, avesse
6alla fine fatto scoppiare le dighe. Quando le acque vengono liberate per inon-dare una pianura assetata, non ci si deve chiedere se portano solo fiori. Palamas era profondamente consapevole di tutte le componenti della nostra civiltà, quella antica, la bizantina e la moderna. Un mondo di cose inespresse si stringeva nella sua anima. E fu proprio questo mondo, il suo mondo, che egli ci ha liberato. Non voglio sostenere che la sua abbondanza non gli abbia nuociuto, ma la gente che si assiepò attorno alla sua bara nel 1943 chiaramente sentì certamente qualche cosa di ciò che vi sto dicendo quando, al momento dell’addio definitivo, sponta-neamente cantò l’inno nazionale, l’inno della libertà, sotto gli occhi delle autorità occupanti.Centocinquantaquattro poesie costituiscono l’opera più conosciuta di Constan-tine Cavafy, che è al polo opposto di Palamas. Egli è uno di quei rari poeti cui motivazione non è la parola; il pericolo sta nell’abbondanza delle parole. Ha fatto parte della cultura ellenica che fiorì in Egitto e oggi è scomparsa. Tranne che per alcune assenze, ha trascorso la sua vita ad Alessandria, sua città natale. La sua arte è caratterizzata dal rifiuto e dal suo senso della storia. Come storia non mi riferisco al resoconto del passato, ma la storia che vive nel presente e mette in luce la nostra vita presente, nella sua drammaticità e nel suo destino. Io paragono Cavafy al Proteus della costa Alessandrina che, Omero dice, cambiava continua-mente forma. La sua tradizione non è tanto l’arte popolare che Solomos e Palamas avevano seguito; era la tradizione degli studiosi. Mentre essi traevano ispirazione da una canzone o da un racconto popolare, egli faceva ricorso a Plutarco o a un oscuro cronista o alle gesta di un Tolomeo o di un seleucide. Il suo linguaggio è una miscela di quello che aveva imparato dalla sua famiglia (una bella famiglia di Costantinopoli) e di ciò che il suo orecchio sentiva per le strade di Alessandria, perché egli era un uomo di città. Egli amò paesi e periodi in cui le frontiere non erano ben definite, in cui personaggi e credenze sono fluide. Molti dei suoi per-sonaggi sono in parte pagani e in parte cristiani, o vivono in un ambiente misto: «Siriani, Greci, Armeni, Medi», come egli diceva. Una volta che avete acquisito dimestichezza con la sua poesia, ci si inizia a chiedersi se non è una proiezione della nostra vita presente nel passato, o forse se la storia non ha deciso all’improv-viso di invadere la nostra esistenza presente. Il suo mondo è un mondo prelimi-nare che torna in vita con la grazia di un giovane corpo. Il suo amico E. M. Forster mi disse che, quando gli lesse per la prima volta una traduzione delle sue poesie, Cavafy esclamò sorpreso, «Ma tu hai capito, mio caro Forster, hai capito». Si era completamente dimenticato come ci si sente ad essere capiti!Da allora è passato un bel po’ di tempo e Cavafy è stato abbondantemente tra-dotto e commentato. Ora sto pensando al vostro vero poeta e generoso ellenista, il tardo Hjalmar Gullberg, colui che introdusse Cavafy in Svezia. Ma la Grecia ha diversi aspetti, e non tutti sono evidenti. Penso al poeta Anghelos Sikelianos. Lo conoscevo bene, ed è facile ricordare la sua splendida voce quando recitava le sue poesie. Aveva qualcosa dello splendore di un cantore di un antico passato, ma allo
7stesso tempo era insolitamente familiare con la nostra terra e i contadini. Tutti lo amavano. Egli veniva chiamato semplicemente «Anghelos», come se fosse uno di loro. Egli sapeva istintivamente come stabilire una relazione tra le parole e il comportamento di un pastore del Parnaso o di una donna del villaggio e il sacro mondo che lui abitava. Era posseduto da un dio, una forza composta di Apollo, Dioniso e Cristo. Una poesia che scrisse una notte di Natale durante l’ultima guerra, Dioniso nella mangiatoia, inizia:«mio dolce bambino, mio Dioniso e mio Cristo».Ed è veramente sorprendente vedere come in Grecia, l’antica religione pagana si è mescolata con il Cristianesimo ortodosso. In Grecia anche Dioniso era un dio crocefisso. Cavafy, che ha così fortemente sentito ed espresso la resurrezione dell’uomo e del mondo, è comunque lo stesso uomo che ha scritto “La morte è l’unico modo”. Egli capì che vita e morte sono due facce della stessa medaglia. Gli facevo visita ogni volta che passavo per la Grecia. Egli soffriva di una malat-tia, ma la forza che lo ispirava non lo abbandonò fino alla fine. Una sera a casa sua, dopo che un suo svenimento ci aveva allarmato, mi disse: «Ho visto il nero assoluto; era indicibilmente bello».Vorrei ora concludere questa breve considerazione con un uomo che mi è sempre stato caro; egli mi ha sostenuto in ore difficili, quando ogni speranza sem-brava scomparsa. Egli è un caso estremo di contrasti, anche nel mio paese. Non è un intellettuale. Ma l’intelletto ridotto a se stesso a volte ha bisogno di freschezza, come i morti che avevano bisogno di sangue fresco per rispondere a Ulisse. All’età di trent’anni egli imparò a leggere e a scrivere un po’ al fine di registrare, ha detto, quello che aveva visto durante la guerra di indipendenza, in cui aveva preso parte attiva. Il suo nome è Ioannis Makriyannis. Vorrei paragonarlo a uno di quei vecchi tronchi di olivo nel nostro paese che sono stati modellati dagli elementi e che, credo, possano insegnare la saggezza. Anche lui, aveva una forma modellata da elementi umani, da molte generazioni di anime umane. Nacque verso la fine del diciottesimo secolo nella Grecia continentale vicino a Delfi. Ci racconta come la sua povera madre, mentre stava raccogliendo fascine, fu sorpresa da dolori del parto e diede i natali a lui in una foresta. Non era un poeta, ma in lui c’era la musica, come è sempre stato nell’anima della gente comune. Quando uno straniero, un francese, andò a trovarlo, egli lo invitò a pranzo; egli ci disse: «Il mio ospite ha voluto ascoltare qualcuna delle nostre canzoni, così ho inventato qualcosa per lui». Aveva un singolare talento per l’espressione; la sua scrittura assomiglia ad un muro costruito pietra su pietra; tutte le sue parole svolgono la loro funzione e hanno le loro radici; a volte c’è qualcosa di omerico nel loro movimento. Nessuno mi ha insegnato più di lui come scrivere in prosa. Egli non amava l’inganno della retorica. In un momento di rabbia esclamò: «È stato nominato il nuovo coman-dante della cittadella di Corinto – un pedante. Il suo nome era Achille, e sentito il nome voi pensavate che fosse il famoso Achille e che il nome volesse significare la lotta. Ma un nome non combatte; ciò che combatte è il valore, l’amore per il
8proprio paese, e la virtù.” Ma al tempo stesso si percepisce il suo amore per l’ere-dità del passato, quando disse ad alcuni soldati che stavano per vendere due statue a degli stranieri: «Anche se vi pagano diecimila talleri, non lasciate che le statue lascino la nostra terra. È per loro che abbiamo combattuto». Considerando che la guerra aveva lasciato molte cicatrici sul corpo di quest’uomo, si può giustamente concludere che queste parole hanno sicuramente avuto il loro peso. Verso la fine della sua vita il suo destino è diventato tragico. Le sue ferite provocavano in lui intollerabile dolore. È stato perseguitato, incarcerato, processato e condannato. Nella sua disperazione scriveva lettere a Dio. «Tu non ci ascolti, non ci vedi.» Questo fu alla fine. Makriyannis morì a metà del secolo scorso. Le sue memorie sono state decifrate e pubblicate nel 1907. Ci sono voluti molti più anni perché i giovani riuscissero a comprendere la sua vera grandezza.Vi ho parlato di questi uomini perché le loro ombre mi hanno seguito fin da quando ho iniziato il mio viaggio in Svezia e perché i loro sforzi rappresentano a mio avviso gli sforzi di un corpo soffocato per secoli che, con le sue catene finalmente rotte, riprende vita e cerca di realizzare la sua naturale attività. Senza dubbio, il mio resoconto ha molte limitazioni. Ho distorto nel semplificare. La limitazione, che non approvo affatto, è inerente a qualsiasi questione personale. Sicuramente ho omesso grandi nomi, ad esempio, Adamantios Korais e Alexan-dros Papadiamantis. Ma come parlare di tutto questo senza fare una scelta? Per-donate la mia debolezza. In ogni caso, ho solo indicato alcuni punti di riferimento, e l’ho fatto nel modo più semplice possibile. Oltre a quegli uomini, e ai periodi che li separano, ci sono state naturalmente molte generazioni di lavoratori che hanno sacrificato la loro vita per far progredire lo spirito un poco di più verso quella espressione che è l’espressione greca. Inoltre, ho voluto esprimere la mia solidarietà con la mia gente, non solo con i grandi maestri della mente, ma con gli sconosciuti, gli ignorati, coloro che hanno letto un libro con la stessa devozione con la quale ci si inginocchia davanti a un’icona; con i bambini, che hanno dovuto camminare per ore per arrivare alle scuole lontano dai loro villaggi per imparare «le lettere, le cose di Dio», come dice la loro canzone. Per echeggiare ancora una volta il mio amico Makriyannis, non si deve dire «io», ma bisogna dire «noi», perché nessuno fa nulla da solo. Ritengo giusto che sia così. Ho bisogno di quella solidarietà, perché, se non capisco gli uomini del nostro paese con le loro virtù e i loro vizi, sento che potrei non capire gli altri uomini del grande mondo.Non vi ho parlato di antichi. Non ho voluto stancarvi. Forse dovrei aggiungere poche parole. Dal quindicesimo secolo, dopo la caduta di Bisanzio, essi sono diventati sempre più il patrimonio dell’umanità. Sono stati integrati in quella che abbiamo chiamato civiltà europea. Noi siamo lieti che così tante nazioni contri-buiscono a renderli più vicini alla nostra vita. Ancora, ci sono alcune cose che sono rimaste nostra inalienabile proprietà. Quando ho letto in Omero le semplici parole «δαοζ ηελιοιο» – oggi si direbbe «δωζ του ηλιου» (la luce del sole) – ho provato una familiarità che si apparenta piuttosto a un anima collettiva che
9da un impegno intellettuale. Si tratta di un tono, si potrebbe dire, le cui armonie si estendono abbastanza in lontananza; è una sensazione molto diversa da tutto ciò che una traduzione può dare. Per noi, dopo tutto, parlano la stessa lingua, una lingua cambiata, se insistete, da una evoluzione di diverse migliaia di anni, ma nonostante tutto fedele a se stessa – e la sensazione di una lingua deriva da emozioni quanto dalla conoscenza. Questo linguaggio mostra le impronte di gesti e atteggiamenti ripetuti nel corso dei secoli fino a noi. Queste impronte hanno a volte un modo sorprendente di semplificare i problemi interpretativi che sem-brano molto difficili per gli altri. Non voglio dire che siamo dello stesso sangue, io detesto teorie razziali, ma abbiamo sempre vissuto nello stesso paese, e hanno visto le stesse montagne giungere fino al mare. Forse ho usato la parola “tradi-zione” senza ricordare che essa non significa abitudine. Al contrario, la tradizione ci dà la possibilità di spezzare le abitudini, e dimostra così la sua vitalità.Non ho parlato con voi della mia generazione, la generazione sulla quale pesa l’onere di un riadattamento morale dopo l’esodo di un milione e mezzo di per-sone dall’Asia Minore, testimonianza di un fenomeno unico nella storia greca, il riflusso verso la Grecia continentale, la concentrazione della popolazione, una volta dispersa in fiorenti centri del mondo.E, infine, non ho parlato di quella generazione che è venuta dopo di noi, la cui infanzia e adolescenza sono state rovinate durante gli anni dell’ultima guerra. Essa ha indubbiamente nuovi problemi e altri punti di vista: la Grecia è diventata sempre più industrializzata. Le nazioni si avvicinano sempre di più. Il mondo sta cambiando. I suoi movimenti sono sempre più accelerati. Si potrebbe dire che è caratteristica della nuova generazione è quella di creare abissi, sia nell’anima dell’uomo, sia nell’universo che ci circonda. Il concetto di durata è cambiato. È una triste e inquieta giovane generazione. Capisco le sue difficoltà; esse sono, dopo tutto, non così diverse dalle nostre. Un gran lavoratore per la nostra libertà, Righas Pheraios, ci ha insegnato: «I liberi pensieri sono buoni pensieri.» Ma vorrei che i nostri giovani pensassero al tempo stesso alla parola incisa sull’architrave sopra la porta della vostra università di Uppsala: «I liberi pensieri sono buoni, ma i pensieri giusti sono meglio.»Sono arrivato alla fine. Vi ringrazio per la vostra pazienza. Sono grato anche al fatto che «la generosità della Svezia» mi ha permesso alla fine di sentirmi come se fossi «nessuno» – intendendo questa parola nel senso che Ulisse le diede, quando rispose al Ciclope Polifemo: «οudeis» – nessuno, in quella misteriosa corrente che è la Grecia.

GIMNOPEDIA

 

 

 

 

 

 

 

I – SANTORINO

Piega, se puoi, sul mare scuro dimenticando
la musica d’un flauto sopra quei piedi nudi
che calcarono il tuo sonno in quell’altra vita ora sommersa.

Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo ciottolo
il giorno il nome il luogo
gettalo a mare perché vada a picco.

Ci siamo ritrovati nudi sopra la pomice
rimirando le isole affioranti
rimirando le rosse isole andare a fondo
nel loro sonno, nel nostro.
Ci siamo ritrovati qua
nudi, con la bilancia
che traboccava verso l’ingiustizia.

Tallone di potenza volontà senz’ombra calcolato amore
piani che si maturano al sole meridiano
rotta del fato al battito della giovine mano
sull’omero:
qui nel luogo smembrato che non regge
nel luogo che fu nostro
colano a picco – ruggine e cenere – le isole.

Are crollate
e gli amici scordati
foglie di palma nel fango.

Lascia, se puoi, viaggiare le tue mani
sul margine del tempo con la nave
che toccò l’orizzonte.
Quando il dado ha battuto sul marmo
e la lancia ha battuto la corazza
e l’occhio ha conosciuto il forestiero
e seccato è l’amore
in anime bucate,
quando ti guardi attorno e tutt’in giro
trovi piedi falciati
in giro mani morte
occhi ciechi di buio,
quando non hai più scelta
di quella morte che volevi tua,
udendo un grido
e sia grido di lupo,
il tuo diritto,
lascia, se puoi, viaggiare le tue mani
staccati via dal tempo infido e cola
a picco:
chi solleva i macigni cola a picco.